“Panta rei“. Tutto scorre, a Varanasi. Il Gange, il traffico (reso fluido dall’ostinato uso del clacson di auto e tuk-tuk), la fiumana di persone tra gli stretti vicoli del centro, il senso del sacro che si eleva sulle note della preghiera al tramonto e si impiglia tra i vestiti cenciosi dei mendicanti. O forse è il contrario. L’essenziale è non fermarsi. Fluire come il fiume che si getta nel mare. Inesorabile.
Varanasi si chiama in tanti modi, compreso Benares come battezzata dagli Inglesi che non riuscivano a pronunciarne il nome. Città sacra, città dei morti, ombelico del mondo, città più antica del mondo (non è proprio così, ma potrebbe esserlo).
Come tutta l’India, Varanasi è un pugno che si trasforma in carezza. O viceversa. Ti aggredisce con i suoi colori, gli odori (i profumi e le puzze, l’incenso e la putrefazione), ti seduce con la liscia morbidezza delle sue sete e ti schiaffeggia con la povertà ruvida degli accattoni accucciati a ogni angolo.
L’orecchio viene costantemente violentato dai rumori di un traffico senza requie anche di notte, un incessante andirivieni di risciò, tuk-tuk, mucche, cavalli, cani, carretti, camion. Ma anche dall’ipnotica melodia dei mantra che saturano l’aria al tramonto. Varanasi è le sue spezie, i sapori piccanti del masala in cui curcuma, coriandolo, cumino, zenzero, cannella e molto altro si mescolano a seconda delle alchimie dello chef, anche se il suo ristorante è un carretto dove pranzi con un euro.
Varanasi è un film che si srotola davanti ai tuoi occhi mentre il tuk-tuk si fa strada tra la folla e insegui con lo sguardo i sari colorati delle donne che saettano a ogni angolo. Come se tutta la vita si riversasse in strada e cercasse un modo per rimanerci.
A Varanasi non puoi fare altro che scorrere, con la corrente, senza opporre resistenza. Solo lasciarti trasportare da questo flusso… senza cercare di capire con la razionalità. Riti antichi di millenni immortalati con lo smartphone di ultima generazione. Varanasi non puoi misurarla con il metro occidentale, ma con il passo scalzo dei nagha sadhu, i santoni nudi ricoperti solo di cenere.
Il Gange (anzi Ganga, non con la pronuncia errata ma resa eterna dagli odiati inglesi), la Madre, come lo chiamano in hindi, in cui la parola fiume è femminile. Immensa come il mare, come la mamma. Le sue acque sacre e limacciose, dove finiscono i resti dei cadaveri bruciati sulle pire, le fogne di milioni di abitazioni e gli scarichi delle industrie. Eppure qui si viene da tutta l’India almeno una volta nella vita per immergersi in quest’acqua con i livelli di batteri fecali tra i più alti al mondo. Chissà se basteranno a scongiurare temibili malattie le barchette votive con candele di burro e fiori lasciate galleggiare dopo il bagno purificatore.
Ignoranza o devozione? Autosuggestione o misticismo? Di nuovo le categorizzazioni dell’Occidente che portano fuori strada. Quanto quella che hanno percorso i pellegrini per venire a bagnarsi nel fiume e interrompere il Samsara, il ciclo delle reincarnazioni. Varanasi che accoglie tutti i moribondi che qui vogliono esalare l’ultimo respiro, il posto dove gli indù vengono a morire da tutta l’India.
I bramini con le loro ciotole piene di pigmenti colorati sono pronti a segnarti in fronte con le tre linee simbolo di Shiva e a chiederti sottovoce i nomi dei tuoi genitori per pregare per loro, anche se tu non parli hindi. E ripeti senza comprenderle le parole che ti sussurrano. Sei parte di quel tutto e non ti resta che osservare in prima fila lo spettacolo dell’umanità.
Poi arriva l’alba e l’acqua marrone del Gange si tinge di rosa come i ghat, le scalinate che portano al fiume. Ce ne sono oltre cinquanta, più e meno famosi. Nascoste tra le pieghe del sari dai bordi riccamente ricamati spuntano gli sguardi sorridenti, timidi e curiosi insieme delle donne indiane.
Devi andare in India almeno una volta nella vita per capire qualcosa della vita stessa. Si dice che non sia un viaggio per tutti, ma è davvero un peccato non venire qui se a trattenervi è l’indubitabile sporcizia o l’impatto con la povertà. Non mettete in valigia salviettine e amuchina… lasciate spazio per la curiosità della scoperta, che non è mai asettica. Quando qualcosa è sterile, è vero, non si prendono malattie. Ma non nasce neanche nulla.
Lascia un commento