il caso Le piccole imprese minacciano la disdetta dei contratti collettivi
Sono lo scheletro su cui si regge l’Italia. Il sistema delle piccole e medie imprese garantisce il 54% dell’occupazione e del Pil. Ma, complice la crisi, nell’ultimo anno è stata registrata la chiusura di 100 mila aziende, corrispondente a una perdita di posti di lavoro pari a 300 mila unità (tra autonomi e dipendenti). È quindi «una scelta folle penalizzarle con un aggravio del costo del lavoro del 2, 7%», così replica Marco Venturi, presidente di turno di Rete imprese Italia, alla proposta di riforma del lavoro a cui sta lavorando il governo.
Il riferimento è all’assicurazione sociale per l’impiego che costerà complessivamente 1,2 miliardi alle imprese con meno di 15 dipendenti. Così sono scattate le contromisure. Ieri l’associazione che raggruppa Cna, Confartigianato, Confesercenti, Casartigiani e Confcommercio è arrivata a ventilare l’ipotesi della disdetta dei contratti collettivi nel caso la trattativa sulla riforma del mercato del lavoro non prenda la piega giusta. E quale sia è presto detto: accettare le modifiche suggerite da Rete imprese Italia, di cui la più importante è ridurre i contributi Inail e quelli per la malattia e anche non rendere più costosi i contratti a tempo determinato, soprattutto quelli stagionali. Le casse previdenziali e assistenziali delle Pmi hanno infatti avanzi di bilancio che vengono assorbiti dallo Stato. Soldi che potrebbero essere utilizzati per coprire gli aumenti del costo del lavoro innescati con la riforma. Il settore del terziario e artigianato conta 4,2 milioni di imprenditori e 6 milioni 850mila dipendenti.
Una bella massa critica, che deve aver indotto alla riflessione anche la politica, in tutti gli schieramenti. Venturi ieri è stato impegnato in un’azione di moral suasion trasversale: dal Pd con un colloquio con Pierluigi Bersani al Pdl (Angelino Alfano), all’Udc di Pierferdinando Casini per ricordare di «tenere conto delle esigenze di tutti, anche della Rete imprese Italia, perché artigiani e commercianti sono penalizzati oltre misura dalla prima versione dell’accordo». Mentre Bersani allarga l’orizzonte a tutta la trattativa e parla di «accordo assolutamente necessario a cui tengo moltissimo perché serve un messaggio di fiducia al Paese che si rimetta a camminare sulla base di riforme». Venturi registra da parte dell’esecutivo una «mancanza di sensibilità politica» e denuncia un eccesso di decisionismo («non sono avvezzi alla trattativa»). Nel contempo da parte delle pmi c’è piena consapevolezza della situazione del Paese: «Non siamo irragionevoli ci rendiamo conto delle difficoltà, ma abbiamo avanzato delle proposte sensate». L’importante è che i costi della riforma non vengano scaricati sulle Pmi già appesantite dall’aumento di altri due punti di Iva (e si arriverà al 23,5%) e dalla pressione fiscale che galoppa al 46%. «Quella ufficiale» ricorda Venturi «ma tenendo conto del sommerso è al 52%». Per far cassa, meglio rivolgersi alle imprese più strutturate chiedendo maggiore flessibilità. «Noi siamo in attivo perché dovremmo pagare noi quando sono altri ad aver creato questi scompensi? Quando gli investimenti calano, non si può dare una mazzata a noi, che si ripercuote anche sul lavoro. È tutta una catena. In questa situazione l’unica ricetta è mettere benzina nel motore delle Pmi». Resta da vedere se il ministro del Lavoro Elsa Fornero e il premier Mario Monti decideranno di accettarla.