Rosaria Talarico

"Natural born journalist"

Influenze arabe nella cucina dell’Italia meridionale


Il testo del mio intervento alla riunione conviviale dell’Accademia italiana della cucina presso il ristorante L’oste e la civetta. Buona lettura!

Il cibo è una forma di comunicazione. È un racconto scritto usando gli ingredienti, ancorato a un luogo ma anche libero di viaggiare ed essere reinterpretato. I cibi sono migranti per eccellenza, vanno e vengono incuranti di confini e nazioni. Scandisce l’esistenza con pietanze ad hoc per matrimoni, nascite, funerali, feste religiose… “cibi di devozione” e pasti quotidiani tutti accomunati dalla volontà di nutrire non solo il corpo, ma anche l’anima.

Calabria Saudita

Così i calabresi definiscono spesso la loro regione, tra l’ironico e il rassegnato. I “marocchini” da sempre presenti sulle spiagge calabresi non sono stati mai chiamati così, ma “cuggì”, cugino, abbreviandolo all’uso meridionale, perché, si sa… sei scuro come un calabrese, ti bagni nel nostro stesso mare, quindi sei un parente della famiglia allargata o “allagata” dal Mediterraneo. Si dice sempre delle terre o degli Stati che sono “divisi” dal mare. E invece il mare, specie quello Mediterraneo, unisce. Non a caso lo chiamiamo Mare Nostrum. Un grande lago, dove si specchiano popoli che da sempre si sono intrecciati sulle coste, nelle rotte delle navi, nei commerci, ma anche negli assedi e nelle invasioni. Finanche in questi casi cruenti, il senso di sopravvivenza meridionale (e la familiarità con invasori ogni volta diversi) ha saputo trarre vantaggio da usi e costumi differenti, inglobandoli nelle proprie tradizioni. La ricerca dell’identità è spesso un esercizio sterile se si è in cerca di una introvabile purezza delle origini. Specie quando l’origine si basa sulla mescolanza. Di razze e di ingredienti. Ce lo dicono gli studi di genetica che “mischiare” patrimoni genetici differenti produce esemplari più belli e resistenti. Vale anche per la cucina. Dove l’incontro tra ingredienti insoliti e contrastanti è spesso alla base del successo di piatti e ricette.

Accademia Italia Cucina

Agrodolce

Pensiamo ad esempio all’agrodolce, una sintesi perfetta di sapori opposti.
Lo ritroviamo nell’antichissima ricetta delle polpette con uvetta e pinoli della tradizione napoletana. O nella caponata siciliana dove si incontrano cipolle, peperoni, patate, zucchero, pinoli e uvetta. O nelle salse come la scapece, una marinatura in aceto tipica della cucina araba (e da cui infatti il nome deriva, sakbāj, cucinato nell’aceto) che serviva a conservare più a lungo pesce e verdure quando il frigorifero non c’era. O ancora l’insalata di arance dagli echi marocchini, dove si mescolano olive, finocchi, cipolle e noci. L’uso di aceto e zucchero è indice della provenienza dall’area arabo-persiana, di cui uno dei tratti distintivi è la contemporanea presenza di dolce e salato. Così non pare ardito il confronto tra sardella e harissa (in arabo: هريسة‎), una salsa tipica del Nordafrica e diffusa soprattutto in Tunisia, simile al concentrato di pomodoro con aggiunta di peperoncino rosso fresco, aglio e olio d’oliva e la sardella calabrese. Lungo la costa ionica si preparava invece una specie di caviale del Sud (antesignano della nostra sardella) fatto con neonata di pesce salato e pepato, esportato con successo sulle tavole di Roma. Furono i Fenici a fare per primi la bottarga.

Così sembra un’eresia dire che piatti universalmente riconosciuti come italiani, in verità devono la paternità ai “cuggì”, che ci stanno di fronte. Il gelato, i panzerotti, il caffè, la cassata e perfino gli intoccabili maccheroni.

Partiamo dalla fine, dai dessert

II sorbetto è tutto arabo, a partire dal nome sherbet: un miscuglio di succo di agrumi, cannella, vaniglia e ghiaccio tritato a cui gli arabi aggiunsero lo zucchero di canna. In Calabria esiste la scirubetta, che si fa con caffè, zucchero e neve fresca. È al sapore di gelsomino il gelato più antico, lo scurzunera. Il nome si deve alle capacità curative della pianta che era usata come antidoto al morso dei serpenti, in siciliano scursuni. La zalabiyah è diventata la zeppola, mentre i panzerotti (katayef) derivano dall’abilità di friggere le paste ripiene propria dei popoli arabi e sono parenti delle mpanatigghiee modicane. La frutta martorana (detta anche marzapane o pasta reale) è tipica della commemorazione dei defunti. Secondo la tradizione fu importata dalla Terrasanta dai Crociati e una donna palestinese la insegnò alle monache del convento della Martorana. Anche alcuni dolci della tradizione calabrese testimoniano contaminazioni culturali arabe, come la pasta di mandorle o le giurgiulene, torroncini a base di miele, mandorle, scorzette di arancio e semi di sesamo.

La cassata

Forse il dolce siciliano più famoso deve il suo nome al termine arabo qas’at, che significa scodella rotonda, dove viene versato il dolce ripieno di ricotta. Altra etimologia è il latino caseus, formaggio. “L’unica cosa certa è che questo dolce è frutto della fusione di due culture: da una parte la tradizione casearia romana con la ricotta, dall’altra i canditi e la pasta di mandorle tipicamente arabe. Alle origini, prima della dominazione saracena, la cassata non era altro che un involucro di pasta frolla farcito di ricotta zuccherata. Furono gli arabi ad arricchire la ricetta con l’introduzione della canna da zucchero, degli agrumi come limone, cedro, arancia amara e mandorle. Secondo la leggenda, le suore di Santa Maria in Valverde a Palermo producevano questo dolce per i nobili palermitani che lo consumavano il giorno di Pasqua. Ne venne vietata la produzione perché le monache per la sua preparazione si distraevano dalle celebrazioni della quaresima”.

I distillati

Storta e alambicco (al-anbīq), nomi di origine araba, servivano per distillare le vinacce. Inizialmente il liquido alcolico non si beveva, ma era usato come combustibile per le lampade e come disinfettante. L’uso dell’anice accomuna il pastis francese, l’anis spagnolo, il raki balcanico, l’arak libanese, l’ouzo greco e l’anice in Italia.Gli arabi nell’Italia del Sud diffusero l’uso del pepe e del peperoncino (e spezie come i chiodi di garofano, noce moscata e caffè) e introdussero coltivazioni mai viste prima: agrumi, melanzane, riso, gelso, lenticchie, ceci, fave, piselli. Insieme ad aglio, cipolle cetrioli, finocchi, mele, prugne, melograni, uva, fichi, mandorle, nocciole, noci, pistacchi, zafferano, sedano… Soprattutto il grano duro che secondo lo storico gastronomico Clifford Wright, autore del libro Of the Italian food preparations that are Arab-derived, ha “letteralmente cambiato il corso degli eventi. Ha ridotto notevolmente le carestie che, periodicamente, colpivano le varie popolazioni durante il Medioevo” perché l’alto contenuto di glutine garantiva migliore conservazione dei suoi derivati come pasta e couscous.

Cous cous

Ed è proprio il cous cous che viene cucinato con una variante tutta siciliana, cioè con il brodo di pesce al posto di montone, capretto o pollo in uso nel Maghreb. I musulmani sbarcati in Sicilia erano pescatori tunisini e per questo a Trapani il cous cous è rigorosamente di pesce.
Il brodo si versa sui granelli di semola lavorati con le dita e poi cotti a vapore nella cuscusera, una pentola keskes con fondo convesso e bucherellato che si sovrappone a un’altra piena d’acqua bollente.

Maccheroni e parmigiana

La parmigiana di melanzane non è di Parma, ma del Sud dove crescevano rigogliose. La città emiliana ha dato il nome a questo piatto per l’uso del formaggio (ma in Calabria si usa il pecorino). Di origine arabo-berbere sono invece i maccheroni, mukarana, lunghi fili essicati di pasta di grano duro.

Arancina o arancino?

Forse guardando agli arabi si derime questa annosa diatriba semantica. Arancia in arabo si dice naranjiya e alla sua forma si ispirano le famose polpette di riso. La ricetta corrisponde a delle polpette di carne di montone passate nell’uovo sbattuto fino a farle sembrare arance, per colore e consistenza. Usanza araba è mangiare con la mano un boccone di riso insieme alla carne. Alle nostre arancine si avvicinano i kibbeh libanesi, con il bulghur al posto del riso. L’inganno è parte della cultura araba, l’arancina è un trompe l’oeil che sembra una cosa, ma invece è altro.
Le arance si usano poi come pianta ornamentale e come frutta candita, elementi stilistici che si ritrovano nelle ceramiche e nelle decorazioni dei dolci.

Liber de coquina

Il titolo di uno dei più importanti libri di cucina dell’antichità “è modellato probabilmente sul Kitâb al-tabîkh, manoscritto di cucina redatto a Baghdad intorno al 1220 da Muhammad ibn al-Hasan ibn al-Karîm. Scritto in latino in osservanza alla serietà scientifica dell’impresa: il luogo della sua compilazione è dunque lo scrittoio e non più la cucina”. L’albicocca, il fico d’India, i datteri, le banane e gli asparagi li conosciamo sempre grazie agli Arabi. Maestri anche nella pesca, come quella complessa del tonno, dove ancora oggi il capo della tonnara è il raìs. L’uso dei piatti unici (come la zuppa di pesce) è arabo così come i nomi dei recipienti di terracotta dove venivano preparati. Un pietanza egiziana doc è il koshari che mette insieme pasta, riso e legumi. Proprio come usavano i contadini del Sud.

Caffè napoletano o arabo?

La più italiana delle bevande, in realtà non lo è! Gli arabi lo chiamavano qawah, mentre per i Turchi era il qahvé. L’uso arabo prevede di far bollire in un pentolino chiamato ibrik (da cui “bricco”) acqua, zucchero, caffè e spezie come il cardamomo.

Non si mescolano solo i cibi, ma anche le lingue

La teoria della Pangea ci dice che la Sicilia era africana, incuneata nel golfo libico di Sirte, come mostra la forma delle coste. Le influenze arabe sono presenti ancora nell’architettura, nei nomi dei luoghi e perfino nei cognomi.

Gebbia deriva dal termine arabo gabya, ossia vasca in muratura per la raccolta dell’acqua. O caraffa che deriva da garraffa, bottiglia panciuta.
Nella toponomastica: Marsala (Marsa-allah), porto di Dio, Zafferana (dallo zafferano, za῾farān) o Caltanissetta, Caltagirone, Caltavuturo che derivano il loro nome da kalat, castello. E poi ci sono anche termini commerciali come tariffa, sensale, magazzino o agricoli come fustuca (pistacchio), zagara (i fiori d’arancio), lo zibibbo; cognomi come Badalà o Vadalà (servo di Allah).

Meridionale è il senso arabo dell’ospitalità, della famiglia allargata e dello stare insieme a tavola. Insieme a influenze meno nobili come il patriarcato, il maschilismo e l’abbigliamento. Mia nonna usciva sempre di casa con u maccaturu, il fazzoletto che le copriva la testa e che deriva dal francese mouchoir e dal latino mucus, il fazzoletto da naso trasformato in foulard.
Ci avviciniamo alla cena, non temete.

Pasta con le sarde
Pasta con le sarde

Lo sbarco degli arabi a Mazara del Vallo nell’827 segna l’inizio della loro colonizzazione alimentare che dura ancora oggi, come abbiamo visto.
Non tutti sanno che la pasta chi sardi, una delle ricette più note della tradizione siciliana, è nata dall’inventiva di un cuoco del generale arabo Eufemio. Le sue truppe rimasero senza viveri nei dintorni di Siracusa e per sfamarle con i pochi ingredienti a disposizione il cuoco inventò questo piatto prelibato. L’odore del pesce non esattamente fresco venne coperto grazie all’aroma del finocchietto selvatico, mentre i pinoli servivano a scongiurare un’intossicazione grazie alle loro virtù medicamentose. Finisco con un piatto che a dispetto della fama, tanto nordico non è: la polenta. Ci avete mai pensato che è fatta di granoturco? Volendo intendere con questa espressione, una varietà esotica di cereale, rispetto al tradizionale frumento. Enorme la somiglianza con l’assida, piatto preferito di Maometto e fatto con orzo spezzato: polente erano in genere chiamati tutti i cereali spezzati bolliti nell’acqua.

In arabo “ospite” vuol dire “colui che cammina”

L’ospitalità e la condivisione del cibo al Sud sono un evento naturale, come il sole o la pioggia. Semplicemente è così. Si tratti di una tribù berbera o di una nonna della Sila, l’essenziale è che si mangi. Tanto. Tutto. In tavola in Libano si mette il doppio del cibo considerando bastevole: non vedo nessuna differenza con quello che da sempre fa mia madre o facevano le mie nonne. Il viandante, il nomade, il forestiero errante camminano esposti a ogni genere di pericolo. Perciò si accoglie chi è straniero ancora prima di chiedere chi sia, perché ci si immagina possa averne attraversate tante. È il minimo dargli da mangiare, da bere e da riposare. Un altro luogo comune dice infatti che più si è poveri, più si è generosi. Meno si ha, più si condivide. La cultura del rifocillare è meridionale. “Pane e mantu non gravanu tantu” si dice in calabrese. “Pane e cappotto non sono così pesanti da portare”, nel senso che è sempre meglio averli al seguito. Ma se finiscono, al Janub, al Sud ci sarà sempre qualcuno disposto a condividerli.

Rosaria Talarico

Rosaria Talarico

Giornalista professionista, è laureata in Scienze della Comunicazione presso l'Università La Sapienza di Roma con una tesi sulle tecniche di intervista. Collabora con i maggiori quotidiani e periodici italiani (L'espresso, La Stampa, Il Foglio, Il Corriere delle Comunicazioni, Economy) occupandosi di vari settori. Scrive articoli di economia, finanza, cronaca, politica, esteri, media e tecnologia. Nel 2007 ha vinto la sezione giovani del premio Ucsi (Unione cattolica stampa italiana) con il reportage sul precariato nel mondo della scuola pubblicato dal quotidiano La Stampa. In passato ha lavorato per Milano Finanza (Class Editori) e il settimanale Il Mondo (Rcs), nelle redazioni di Roma e Milano. Nel 2008 ha fatto parte dell'ufficio stampa del Ministero dei Trasporti. In precedenza, sempre nell'ambito degli uffici stampa, ha lavorato per le Camere di commercio italiane all'estero e per la società aeronautica Aérospatiale Matra Lagardère Internationale (ora Eads).

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